Campioni si nasce o si diventa? La teoria delle diecimila ore

Allo scadere dei trent’anni ho riflettuto sulla mia vita passata e ne ho concluso che le mie vittorie non erano dovute alla piena padronanza dell’Arte: forse avevo per essa una predisposizione naturale, o quella era la volontà del Cielo, o semplicemente era dovuto al basso livello delle altre scuole di scherma. Allora ho cercato di raggiungere una conoscenza più profonda, e dedicandomi giorno e notte ho realizzato in me stesso l’essenza di Heio all’età di cinquant’anni. 

MYAMOTO MUSASHI Train more than you sleep. MAS MASUTATSU OYAMA 

Se i geni non ci determinano totalmente, e l’ambiente ha sempre l’ultima parola, allora campioni si nasce o si diventa? È sufficiente l’impegno a garantirci l’eccellenza? Saperlo potrebbe essere importante, perché se avessimo la certezza che campioni si nasce, forse tutta la passività e la rassegnazione che contraddistingue la nostra epoca sarebbero giustificate.

Se oggi possediamo una risposta che ci fa propendere a favore dell’importanza dell’impegno, lo dobbiamo a uno psicologo di origine svedese che insegna all’Università della Florida: Anders Ericsson. Egli ha fornito un supporto scientifico al fatto che, nella nostra specie, i vertici dell’eccellenza non si raggiungono grazie al determinismo genetico, ma attraverso un processo volontario: le prestazioni assolute, in qualsiasi campo, da quello artistico agli scacchi, dallo sport alla ricerca scientifica, sono frutto in maniera preponderante dell’esercizio piuttosto che delle capacità innate. Badate bene: come ho già sottolineato, ciò non vuol dire che le predisposizioni e il patrimonio genetico non contino. Semplicemente, significa che non bastano. Senza impegno e dedizione, senza fatica e allenamento, si può essere bravi, ma non si diventa straordinari.

La teoria di Ericsson su questo punto è stata molto spesso fraintesa. Essa non afferma che soltanto per mezzo dell’esercizio chiunque può diventare un campione del mondo o un genio della musica, se non ha alcuna predisposizione in questo senso. Pretenderlo sarebbe sostenere una falsità.

La psicologa Brooke MacNamara dell’Università di Princeton, per esempio, ha provato a «misurare» il peso dell’esercizio all’interno delle varie attività umane.3 Lo ha fatto compiendo una cosiddetta meta-analisi, cioè un procedimento statistico che riassume i dati provenienti da ottantotto ricerche ispirate al modello di Ericsson già pubblicate su importanti riviste scientifiche.

Ebbene, il risultato ha dimostrato che il peso del «fattore esercizio» cambia a seconda della tipologia delle attività considerate. Alcune attività, come la pratica sportiva o la musica, si basano sull’esecuzione di complesse routine psicomotorie o sull’affrontare situazioni in parte prevedibili. È quindi un dato certo il fatto che l’esercizio continuo stimoli la creazione di adattamenti cerebrali, metabolici e muscolari che conducono alla perfezione. Il successo professionale, per esempio, si basa invece su contesti che molto più difficilmente si possono ricondurre a elementi replicabili e/o prevedibili: esercitarsi quindi è meno importante. Ma resta fondamentale il fatto che in nessuna attività si può giungere all’eccellenza vivendo di rendita.

La teoria di Ericsson è una specie di antidoto contro la malattia della passività che la serpeggiante enfasi sul talento rischia di attaccarci.

Questo è anche il senso dello scritto di Musashi riportato in esergo al capitolo: egli a trent’anni si accorse che, nonostante fosse sopravvissuto a oltre sessanta duelli mortali, era bravo nell’arte della scherma, ma ancora molto lontano dal realizzare la perfezione. Si rese conto, insomma, di avere talento («predisposizioni naturali» è l’espressione che usa) ma capì che non bastava: allora si consacrò alla ricerca della perfezione con determinazione assoluta. Con ogni probabilità Musashi rappresenta un ideale di impegno sovrumano, irraggiungibile nella nostra civiltà: tuttavia ci fornisce un metro di paragone interessante e ci illumina su quanto siano patetici i nostri comuni standard di sforzo e i nostri alibi sul «non essere portati».

Il frutto del lavoro di ricerca di Anders Ericsson è oggi noto con il nome di «teoria delle diecimila ore». Una premessa: la regola delle diecimila ore non va presa in senso letterale. È una metafora utilizzata per descrivere un processo reale, basato su evidenze raccolte con metodo scientifico.

Ericsson e colleghi formularono la regola partendo da una ricerca svolta sui violinisti che studiavano all’elitaria Accademia musicale di Berlino. Con l’aiuto dei docenti gli studenti furono divisi in tre gruppi secondo il livello di performance: per primi individuarono quelli che avevano raggiunto l’apice della prestazione musicale e che promettevano una brillantissima carriera internazionale come solisti. Poi identificarono un gruppo intermedio, quelli ritenuti «bravi» sebbene non all’altezza dei primi. Il terzo gruppo era composto da coloro che non avevano raggiunto un livello tale da prefigurare un futuro da musicisti professionisti; potevano al massimo aspirare all’insegnamento nelle scuole. Se interpretassimo questa classificazione in chiave di disposizioni innate, definiremmo i primi studenti dei veri talenti, gli ultimi «meno portati verso la musica».

Il team di ricercatori procedette in altro modo: ricostruì le ore di esercizio intenzionale che era stato svolto negli anni addietro dai componenti dei tre gruppi. Il concetto di «esercizio intenzionale» è estremamente importante: esso è diverso dal semplice esercizio meccanico, cioè dal ripetere tante volte – ma senza una partecipazione consapevole – lo stesso compito. La ripetizione meccanica presenta molti limiti: per esempio non elimina gli errori ma, anzi, li rafforza. Non si tratta solo di questo: l’intervento di un’intenzionalità consapevole permette la neuroplasticità cerebrale. In altre parole, l’intervento dell’attenzione durante l’esercizio rappresenta il fattore che favorisce il rimodellamento in senso migliorativo dei circuiti cerebrali.4

Di solito, quando si raggiunge una certa padronanza in un  compito, lo si automatizza. Cioè si tende a ripeterlo senza usare una consapevolezza profonda. In generale ciò è un vantaggio: se pensiamo all’esecuzione mentre la svolgiamo, possiamo interferire con la prestazione stessa. Per esempio, se un pugile cercasse una piena consapevolezza di ogni gesto, invece di basarsi su reazioni automatizzate, risulterebbe molto più lento e vulnerabile del suo avversario sul ring. Allo stesso modo, il ginnasta che non esegue in automatico il proprio esercizio evidenzia una perdita di coordinazione o di efficacia nel regolare le contrazioni muscolari.

Tuttavia, secondo Ericsson, chi ha raggiunto la mastery, cioè chi ha raggiunto un alto livello di padronanza, tende a ritardare il momento dell’automatizzazione inserendo negli esercizi obiettivi sempre più sfidanti, che richiedono consapevolezza. Ciò permette di fornire al sistema nervoso più stimoli e più tempo per crescere in complessità. Alla fine l’esecuzione viene automatizzata, ma la padronanza del gesto risulterà di qualità incomparabilmente superiore. L’esercizio intenzionale di solito richiede un maestro, cioè una persona che sia già esperta del processo e che possa fornire obiettivi e feedback adeguati. 

Adesso che abbiamo definito cosa sia l’esercizio intenzionale possiamo ritornare alla ricerca di Ericsson. Egli ricostruì le ore di esercizio intenzionale all’interno di ciascun gruppo e i risultati furono strabilianti: tutti avevano iniziato a suonare il violino alla stessa età, cinque anni. Partiti tutti con un livello di allenamento simile di due-tre ore settimanali, i violinisti si erano differenziati con il passare del tempo. All’età di vent’anni, gli allievi del primo gruppo avevano alle spalle diecimila ore di esercizio, quelli intermedi ottomila e i più scarsi solo quattromila. Non c’era un solo violinista di vertice che, per quanto lo si volesse definire «dotato», non avesse dovuto passare attraverso le diecimila ore di «esercizio intenzionale» per raggiungere il suo livello di performance.

Dopo la ricerca di Ericcson, era il 1993, sono stati compiuti numerosi studi sulle prestazioni di eccellenza in moltissimi campi dell’attività umana e tutti, nessuno escluso, hanno confermato l’intuizione pionieristica dello psicologo svedese: le performance di vertice hanno in comune la stessa struttura. Tutte richiedono una quantità di impegno individuale, sotto forma di esercizio intenzionale, riconducibile, per via approssimativa, a circa diecimila ore di allenamento. Questo è valido sia che siate pattinatori, pianisti o programmatori di computer.

La regola delle diecimila ore è stata applicata persino alla biografia di personaggi universalmente riconosciuti come dei geni, vale a dire dotati di capacità naturali superiori: la carriera di uno di questi – il genio per antonomasia, Wolfgang Amedeus Mozart – è stata analizzata dallo psicologo Michel Howe nel libro Anatomia del genio. Ebbene, secondo Howe (che ha intervistato diversi critici musicali autorevoli), la composizione in cui Mozart dimostra per la prima volta in maniera indubitabile il suo «genio» è il Concerto n. 9 K 271. Quando lo scrive, Mozart si sta dedicando alla composizione già da dieci anni, impegnandosi certamente più di tre ore al giorno: dunque ha già oltrepassato, e non di poco, la soglia delle diecimila ore di esercizio! Questo non vuol dire che Mozart non avesse comunque una straordinaria predisposizione verso la musica. Più semplicemente, significa che, senza esercizio, non sarebbe mai diventato il genio che conosciamo. Forse, solo un modesto musicante.

Estratto da:
Pietro Trabucchi – 
Tecniche di resistenza interiore. Come sopravvivere alla crisi della nostra società. Mondadori