STORIE DI TAICHI: camminando come Joyce

Negli anni ho imparato una cosa: quando arrivo ad avere la sensazione di non capire più niente, di solito è perché sto per capire qualcosa in più. Questo è fondamentale per mantenere la calma.

Di fatto, a me la forza piace. Questo deriva probabilmente da svariati retaggi culturali, siano essi morali, etici o estetici. La sostanza non cambia: la forza mi piace. Il mio è un approccio “atletico” al taijiquan: se non sudo, se non mi stanco, se le gambe non fanno male, credo di non aver lavorato abbastanza. Affrontare le difficoltà della pratica con determinazione, normalmente, si traduce per me in un esercizio in primis muscolare. È pur vero che la mia idea di efficacia prevede la fusione di forza e potenza con fluidità ed elasticità, ma resta il fatto che tutto ciò influenza in modo notevole l’intenzione. Anzi: forse, in parte, è l’intenzione. Ma, in un certo senso, penso vada ripulita, lucidata. C’è qualcosa da togliere insomma.

Se l’intenzione è pensiero creativo, come distinguere il creativo dal mentale?

Togliere un misero granello di polvere da un solo ingranaggio è sufficiente a rivoluzionare l’intera macchina. Ma per trovare quel granello in quell’ingranaggio possono servire anni.

Si cercano sempre nuove porte da aprire per trovare spazio. Capita che, davanti a una porta, afferrando la maniglia, un istante prima di aprire, giunga una sorta di vertigine: paura? Paura di aprire la porta?

E poi ti dicono «benvenuto a casa, compagno di via». Cose che scaldano…

Il taijiquan è radicalmente empirico: questo gli conferisce grande efficacia in ogni suo aspetto, rendendolo tanto semplice quanto per nulla facile.

Si pratica anche per trovare rimedio a una giornata di forte mal di schiena, come per una sorta di effetto collaterale calcolato.